giovedì 22 settembre 2016

il disperso di Marburg

 
"A questo libro Nuto Revelli doveva arrivare. Nelle sue memorie, nelle sue inchieste, nelle sue raccolte di testimonianze, il tema che vi affronta era o assente o poco considerato, ma in realtà di una ingombrante e mastodontica presenza.
Era il tema del nemico, cui egli si concede oggi per il tramite di un altro tema che gli è familiare, molto familiare: quello del disperso.
Prima di riconoscere la possibile umanità del nemico (e dunque una somiglianza, un'appartenenza comune nonostante tutto), egli la trova nella figura del disperso, del senza nome che la guerra ha travolto e sbattuto in un buio cantone di dimenticanza, certamente morto ma nel limbo perché senza nome". (dall'introduzione di Goffredo Fofi).
 
 

March Bloch in un intenso libro "Apologia della Storia" descrive il mestiere dello storico e cerca di definire il cerchio (mai completo beninteso) delle attività che lo stesso deve svolgere, per ben adempiere al suo compito.
Le fonti "orali", gli scritti, i luoghi, le grandi azioni della Storia, le fonti ufficiali e quelle popolari, sin anche, i "sentito dire", un metodo scientifico che permetta di indagare un fatto, portarlo allo scoperto e poter dichiarare alla fine: è realmente accaduto così.
Nuto Revelli, ufficiale dell'esercito italiano nella campagna di Russia e poi comandante di un gruppo di partigiani nel Cuneese, svolge questa ricerca anomala e la trasforma in uno scritto, ponendosi una sola e semplice domanda: E' esistito realmente un tedesco "buono", che tutti i giorni a cavallo passava nella campagna vicino alla Caserma di San Rocco?
E perché fare questa ricerca? Perché superare le sue stesse reticenze per dare un volto a quell'uno?
Più si avvicina alla verità, più il nemico si umanizza e più diventa difficile per Revelli, fare i conti con la realtà e con la propria coscienza.
Perché scrivere e quindi poi leggere un simile racconto/resoconto?
Forse come necessità di riconciliazione con un passato che fatica a chiudersi.
 
 

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