sabato 27 gennaio 2018

Se questo è un uomo

Parte da lontano, il mio amore per Primo Levi, dalle superiori, quando decisi di portare la sua vita, la sua opera, il suo percorso personale all'interno dei grandi drammi del Novecento, quale tesina d'italiano all'esame di maturità... chi poteva sapere che poco dopo si sarebbe tolto la vita nella sua amata Torino?
Spesso mi sono domandato perché amare un tale autore ed un tale argomento.... la risposta è arrivata per gradi... innanzitutto per capire, riuscire a cogliere il più grande dramma della cultura occidentale, dare un volto all'indicibile, cogliere il perché di una caduta nella barbarie di un popolo così civilizzato come quello tedesco, concepire il baratro di tutta l'Europa....
La cosa che a molti sfugge è che, a differenza delle terribili stragi del passato, perpetrate dalle diverse parti in causa: neri d'Africa nella tratta degli schiavi, morti a causa del colonialismo, morti per guerre tra Stati, guerre di religione nell'eterno conflitto tra arabi e cristiani a partire dalle Crociate, questo Olocausto, smuove per la prima volta un caposaldo mai violato... quello della guerra totale tra bianchi, all'interno della stessa Nazione, all'interno della civilissima Europa... Per questo, a differenza di altri eventi di terribile contabilità, vi è un eco tale e non superabile in quanto ad assurdità... Primo Levi la trasforma in letteratura, senza mai piangersi addosso, senza compiacersi, senza odio... ne prende atto e ce la racconta. La lettura è cruda e feroce, ma per il solo scorrere dei fatti, non per interventi dello scrittore, che anzi procede pacato e ne da conto come chi osservi dall'esterno... ecco dice "questo è quanto accaduto, io non so farmene una ragione, e voi?"...

 


"Per mia fortuna sono stato deportato ad Aushwitz solo nel 1944 e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti del tenore di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.
Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione.
Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d'accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano.
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che "ogni straniero è nemico".
Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero.
Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine di una catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano.
La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro.
Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager.
Il bisogno di raccontare agli "altri", di fare gli "altri" partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari. Nessuno dei fatti narrati è inventato".

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