sabato 27 gennaio 2018

A pranzo con Orson

A ben vedere, è facile confondere Orson Welles, con uno dei suoi personaggi, in uno dei suoi mille film mai terminati, delle sue idee, sempre pronte ad uscire dall'ebollizione di una mente unica, una delle più grandi che abbiano solcato i mari del cinema d'Oltreoceano...
Leggendo queste gustose chiacchierate, intorno ad una tavola imbandita, si ha l'impressione di vederlo... come un nobile romano, sdraiato sul triclinio, mentre intorno a lui - enorme come un tendone da circo - il mondo continua a muoversi, in mille faccende affaccendato, senza smuoverne in alcun modo la flemma e lo sproloquio rivolto a tutto e tutti...
Divertenti, interessanti, curiosi, i racconti che ne emergono, svelando un mondo del cinema molto ma molto umano, molto ma molto cinico, pessimo, meschino, pieno di livore e gelosie... ove i Divi, restano tali anche se sono incapaci di recitare... da sbocconcellare, come un buon piatto...
 
"A me non piacciono i film. Mi piace farli". Una delle battute più celebri di Orson Welles sembrerebbe un paradosso, se si considera che di film propriamente intesi questo puro genio ne ha girato uno solo, a 24 anni, nel 1939, e che da quel momento fino alla sua morte, i film li ha più che altro raccontati, immaginati, cominciati, interrotti, perduti, ritrovati - o se li è fatti massacrare.
Ma per chi conosce bene la sua storia il paradosso è un altro, e cioè che proprio quella specie di fantasticheria permanente in 35 millimetri, che Welles sottoponeva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo, ha finito nell'immaginario di tutti per diventare "il cinema", una sostanza quasi alchemica che i film in sala contengono spesso solo in tracce.
Per tutti gli altri, che magari di Welles conoscono solo l'immagine, o il frammento di una delle innumerevoli leggende da lui stesso messe in circolo, queste conversazioni settimanali con Harry Jaglom a un tavolo del Ma Maison di Los Angeles, costituiscono la migliore introduzione possibile a una biografia per definizione più grande del vero, raccontata quasi dalla stessa voce che aveva tanti anni prima , reso celebre alla radio, il suo protagonista.
Dove gli episodi verosimilmente fittizi, come l'affair con Norma Jean Baker prima che diventasse Marylin, le battute probabilmente ritoccate ("io e lei siamo i due più grandi attori d'America" Welles sostiene gli dicesse Roosvelt a ogni incontro) e i giudizi che invece suonano piuttosto sentiti (Marlon Brando? Un salsiccione) sono altrettanti trucchi dell'illusionista Welles per condurre il lettore al centro della più fascinosa macchina da intrattenimento di sempre, e fargliela vedere da vicino, come fosse la prima volta".

Tra le tante parafrasi gustose che ho colto in questo libro, provo a riprenderne alcune che a mio parere, meritano di essere riportate:

Pagina 50 - Leo Slezak, il padre dell'attore Walter Slezak, disse la più grande battuta di tutti i tempi, a teatro. Era il massimo tenore wagneriano della sua epoca. Il re senza corona di Vienna. Cantava il Lohengrin. Se sei un wagneriano, sai che Lohengrin entra in scena su un cigno che galleggia sul fiume. Scende, canta e alla fine dell'ultima aria deve ripartire a bordo del cigno. Non fosse che una sera il cigno se ne andò via da solo, prima che Slezak potesse imbarcarsi. Al che lui non batté ciglio, si girò verso il pubblico e disse "A che ora passa il prossimo cigno?"....

Pagina 71 - Ad Hollywood tutti volevano fare a pugni, sapendo che i camerieri lo avrebbero impedito... Bogart voleva sempre scazzottare... Bogart che era un vigliacco e non sapeva affatto picchiare, cercava di continuo rogne nei night club, sapendo che i camerieri l'avrebbero fermato. Si ubriacava e faceva lo spavaldo, sapendo di essere ben protetto...

Pagina 99 - Fritz Lang, di madre ebrea, mi raccontò che Goebbels voleva metterlo a capo dell'industria cinematografica nazista e gli aveva proposto di nominarlo ariano ad honorem. In tutto, gli ariani ad honorem si potevano contare sulle dita di una mano. "Ma io sono ebreo" disse Lang. Al che Goebbels gli fece: "Decido io che è ebreo e chi no!". Lì Lang capì che era ora di andarsene dalla Germania.

Pagina 137 - E perché Napoleone teneva la mano sotto il panciotto? Glielo consigliò un grande attore. "Sei italiano. Bassino per di più. Hai un'aria ridicola. Quando parli, gesticoli. Tienila sotto il panciotto, quella mano".

Pagina 213 - dici che Gary Cooper è un grande... Ma no. Dico solo che è un grande divo: una grande creazione cinematografica. Questa è la peculiarità dei divi. Non li giudichiamo davvero come attori, sono le creature di cui a un certo momento ci siamo innamorati. E questo dipende da chi vogliamo come eroi. E' impossibile fare una discussione critica seria sugli entusiasmi per i divi del cinema, perché il divo è un pianeta a sé, rispetto alla recitazione. A volte sono grandi attori o attrici, oppure sono attori o attrici di terz'ordine.

Pagina 252 - Forse verrà il momento in cui riusciremo a vivere facendo a meno del mistero, ma allora dovremo chiederci e saremo ancora capaci di poesia. E' difficile da immaginare - un mondo o un'arte senza nessun tipo di inganno.

Pagina 332 - Fellini aveva fatto un sublime ritratto del gourmand: "Welles era un enorme macchione nero, più largo del tavolo per sei persone a cui sedeva nel ristorante della Cesarina, a Roma. Gli andai incontro come se lo avessi conosciuto da sempre. Con un gesto benedicente da monarca, m'invitò a sedere. E vidi arrivare quattro primi piatti: minestrone, fettuccine, cannelloni, rigatoni. Se li dispose attorno, come fa un giocatore con le carte. Mangiava lentamente, gustando tutto: un Enrico VIII, un Giove come lo avevo immaginato al ginnasio"...

 
 


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