sabato 29 febbraio 2020

Nelle tempeste d'acciaio

Ernst Junger partecipò alla Prima Guerra Mondiale con i gradi di sottotenente della Wermacht.
Il suo comportamento in prima linea lo rese leggendario: ferito quattordici volte, ricevette numerosi riconoscimenti al valore, compreso il più alto, L'Ordre Pour Le Mérite.
Portava sempre in tasca un taccuino su cui fissava con precisione gli avvenimenti. Da quelle note, in seguito all'insistenza del padre, si persuase a trarre un libro che avrebbe dovuto intitolarsi "il rosso e il grigio", in omaggio all'amato Stendhal e ai colori mesti e uggiosi della guerra in trincea: Junger preferì alla fine l'immagine tratta da un poema medioevale islandese.
Oggetto di ambigui entusiasmi negli anni Venti e Trenta, "Le Tempeste" ci appaiono oggi la più agghiacciante testimonianza sulla Grande Guerra e l'espressione già perfetta della sovrumana capacità di osservazione di Junger e della prosa fredda e cristallina che egli ha forgiato.
Come scrive Giorgio Zampa nell'introduzione, "l'opera è omogenea: la sua cifra stilistica é unica, la sua coesione non viene mai meno… la tensione che traversa resoconti e cronache è costante, grazie a uno stile di tale perfezione che annulla sé stesso…"
"Le Tempeste" appartengono al genere epico per disposizione naturale: l'autore si pone di fronte alla realtà e la restituisce, conferendole un'autonomia di cui solo l'epico è capace.
"In Stahlgewittern" va veduto come un unicum nella letteratura del secolo: per essere senza antecedenti né seguito chiede di essere considerato al di fuori degli schemi della letteratura di guerra, di riferimenti solo ideologici e politici.
Dare un giudizio su questo libro, che Junger chiama il primo del suo Vecchio Testamento (occhio per occhio, dente per dente) dopo aver letto (o non letto) i diari dell'ufficiale che compì il 6 agosto 1945 la sua missione su Hiroshima, non è agevole.
Le Tempeste figurano come un masso erratico nella discesa sterminata della letteratura europea. (tratto da libro).

 

Solo un acuto osservatore della natura (Junger era tra l'altro entomologo) poteva usare un tono così distaccato per descrivere in modo vivido azioni brutali, morte e distruzione, disperazione, senza lasciarsi andare a romanzare il tutto, senza cedere il passo al romanticismo, ma riuscendo, salvo rari casi a descrivere ogni momento come se fosse stato altrove… e nel farlo a farci intendere cosa significhi realmente una guerra di quelle proporzioni… il distacco totale tra pensiero, idea, volontà di azione e totale impotenza di fronte al massiccio uso di artiglierie e gas, macchine in grado di annientare interi eserciti di esseri umani senza che si materializzi il nemico.
Eppure, riesce Junger, a proposito di un ambiente fiorito e malinconico… "E' più facile battersi in un ambiente simile anziché in un ambiente invernale, freddo e desolato. Qui anche un'anima semplice sente che la sua vita assume una profonda sicurezza e che la sua morte non è una fine".
Oppure, dopo un'azione di guerra, catturati dei prigionieri, mentre li trascinavano verso le proprie linee riuscire a restituire la primitiva idea di guerra "La processione, dalla quale si levavano coi lamenti dei feriti, le nostre voci gioiose, aveva un che di arcaico. Non era più la guerra, era uno spettacolo da preistoria".
Ed infine riuscire poi a farci provare una delle tante note umoristiche… "Ci sparpagliammo in un attimo riparando sul fondo dei crateri. Disgraziatamente caddi col ginocchio nel prodotto della paura di qualcuno che mi aveva preceduto in quel punto e alla meglio mi feci ripulire con un coltello dall'attendente"...
Insomma, un libro speciale, particolare… che ci fa ricordare (con i dovuti distinguo) un certo Primo Levi… potente e disperato.


 

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