"Nel 73 a.C. l'Italia romana era una foresta secca nel pieno della canicola estiva. Spartaco accese un fiammifero... Questa è una storia di guerra. Un caso di insurrezione condotta da un genio della guerriglia e della reazione del potere regolare che imparò, con fatica e dolorosamente, come battere il nemico giocando al suo stesso gioco.
Ma questa è anche la storia di un conflitto etnico, una storia d'amore, una crociata. C'era una moglie o un'amante di cui non resta il nome, sacerdotessa di Dioniso, che predicava n messaggio trascinante: Spartaco aveva una missione divina.
Non solo. Questa è una storia sulla complessità delle rivolte di schiavi e di politica dell'identità. Pur ribellandosi contro Roma, Spartaco era più romano di quanto volesse ammettere. Li terrorizzò non solo perché era straniero, ma perché era familiare.
Spartaco era un soldato che aveva servito Roma, e il suo comportamento forse ricordò ai Romani i loro eroi. Come il generale Marcello, bramava di uccidere. Come Cicerone, era un oratore. Come Catone, era un uomo di gusti semplici. Come i Gracchi, credeva nell'idea di dividere la ricchezza. Come Bruto, lottava per la libertà. Roma era grande, potente e lenta; Spartaco era piccolo, indomabile e veloce. Roma era vecchia e attaccata alle proprie tradizioni; Spartaco era un innovatore. Roma era pesante, Spartaco era agile. Ci volle la fame per prenderlo".
Riporto inoltre un bellissimo commento - su il Sole 24 Ore - firmato da Giuseppe Zanetto.
"C'é una scena del film Spartacus (1960) di Stanley Kubrik, che è entrata ormai nella storia del cinema. Siamo alle sequenze finali, gli schiavi ribelli sono stati sconfitti nello scontro decisivo e i superstiti attendono di conoscere la loro sorte.
Il portavoce del vincitore Crasso, comunica la decisione: tutti i prigionieri avranno salva la vita (schiavi eravate e schiavi tornerete ad essere), purché consegnino ai Romani Spartaco, che si nasconde in mezzo alla folla dei vinti.
Il ricercato si alza in piedi prontamente e si autodenuncia: "sono io Spartaco"; ma dopo un attimo di silenzio anche gli altri si alzano, a uno a uno, e ripetono la stessa frase: "sono io Spartaco, sono io Spartaco, sono io Spartaco...".
Nella realtà, come ci dicono le fonti storiche e come spiega Barry Strauss nel suo libro, ben documentato e ben scritto, le cose andarono diversamente.
Spartaco morì combattendo: era la primavera del 71 a.C. in una località non ben identificata dell'alta Valle del Sele; il suo corpo non venne ritrovato, e finì probabilmente in una fossa comune.
Il vincitore fu tutt'altro che magnanimo con gli scampati: ne catturò vivi 6.000 e li fece crocifiggere lungo la via che da Capua portava a Roma.
Chiaro era il significato di quella apparente gratuita crudeltà.
I chiodi usati per i condannati trafiggevano, metaforicamente, tutti gli schiavi di Roma, inchiodandoli al loro destino e scoraggiando altri tentativi di ribellione.
La guerra di Spartaco fini dunque con un fallimento. Lo schiavo ribelle, fuggito con settanta compagni dalla scuola gladiatoria di Capua nell'estate del '73 a.C. era riuscito a mettere insieme un esercito di disperati, con i quali sconfisse molti generali romani, aprendosi la strada sino alle Alpi.
Ma a questo punto i suoi uomini rifiutarono di lasciare l'Italia; vollero invece ridiscendere lungo la penisola e ricominciare con le battaglie e le razzie.
Il Senato comprese che era arrivato il momento di impegnarsi al massimo livello, per evitare che la ribellione si estendesse, minando i meccanismi della Societas romana.
Roma mise in campo le sue forze migliori e un generale ambizioso e determinato: Crasso.
La sorte di Spartaco era segnata. Ma la Storia gioca con gli uomini a suo capriccio.
I vincitori di ieri sono gli sconfitti di oggi.
Plutarco presenta Spartaco così "Un trace dotato non solo di grande coraggio e forza fisica ma anche di un'intelligenza e una sensibilità superiori alla sua condizione e più greco di quanto facesse pensare la sua origine".
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