domenica 26 aprile 2020

Augustus

Sono le Idi di Marzo del 44 a.C. quando Ottaviano, diciottenne gracile e malaticcio ma intelligente ed ambizioso quanto basta, viene a sapere che suo zio, Giulio Cesare, è stato assassinato.
Il ragazzo, che da poco è stato adottato dal dittatore è quindi l'erede designato, ma la sua scalata al potere sarà tutt'altro che lineare.
John Williams ci racconta il principato di Ottaviano Augusto e i fasti e le ambizioni dell'antica Roma attraverso un abile intreccio di epistole, documenti, diari e invenzioni letterare da cui si scorgono i profili interiori dei tanti attori dell'epoca, i loro dissidi, le loro debolezze: l'opportunismo di Cicerone, la libertà e l'ironia di Orazio, la saggezza di Marco Agrippa, la raffinata intelligenza di Mecenate, ma soprattutto l'inquietudine di Giulia, una donna profonda e moderna, che cede alla lussuria quanto alla grazia.
In Augustus, che valse all'autore il National Book Award nel 1973, protagonista è la lingua meravigliosa di Williams che ci restituisce a pieno lo spirito della Roma augustea.
Un capolavoro della narrativa americana che, fra ricostruzione storica, finzione e perfezione stilistica, non manca mai di dialogare con il presente, e in cui la grande storia è lo spunto per riflettere sulla condizione umana, sulle lusinghe del potere e sulla solitudine di chi lo esercita.
 
Da questo testo traggo qua e la vere perle… righe da leggere, rileggere, trascrivere a futura memoria, passaggi fulminanti che ci aprono la mente… sugli argomenti più disparati ma tutti collegati al reale, al concreto… grande Williams… già apprezzato in butchers crossing (altro mondo, altro tempo), eccolo riapparire con tutta la sua maestosa capacità di trasformare la parola stampata in passione, idea, ispirazione…
Così quando parla di filosofia: "Forse comincio a capire perché i romani disprezzano tanto la filosofia. Il loro è un mondo concreto, fatto di cause e conseguenze, parole e fatti, vantaggi e privazioni. I romani considerano la cultura come uno strumento in vista di un fine; e la verità come un  mero oggetto da utilizzare. Perfino i loro dei servono lo Stato, anziché il contrario".
O quando parla della morale e dei moralisti: "E trovo che i moralisti siano creature inutili e spregevoli. Inutili in quanto sprecano le loro energie dando giudizi, anziché ampliare le loro conoscenze: poiché giudicare é facile, mentre difficile é conoscere. E spregevoli perché i loro giudizi riflettono una visione personale, che per ignoranza e orgoglio pretenderebbero di imporre al mondo intero".
O ancora, quando è il significato della vita ad emergere:"compresi che la perdita è la condizione ineludibile della nostra esistenza. Una lezione, questa, che s'impara da soli".
E quando parla della seduzione: "A chi non è pratico del gioco, i passi che conducono alla seduzione possono apparire ridicoli; ma non lo sono più dei passi di una danza. I danzatori danzano, e godono della loro abilità. Tutto è preordinato, dal primo scambio di sguardi all'accoppiamento finale. E le reciproche finzioni dei partecipanti sono una parte fondamentale di quel complicato gioco: ciascuno si finge impotente davanti al peso della passione, e ogni passo fatto avanti o indietro, ogni singolo assenso o rifiuto, è indispensabile al buon esito della partita….".
Quando poi parla di saggezza: "E' una fortuna che la giovinezza non riconosca mai la propria ignoranza, perché se fosse altrimenti, non troverebbe il coraggio di sopportare. Forse è l'istinto del sangue e della carne che ostacola tale coscienza, consentendo al giovane di diventare uomo, e di scoprire solo allora la follia della propria esistenza" e poco oltre "non ci si inganna sulle conseguenze delle proprie azioni; ci si inganna sul fatto di poterle sopportare… l'adulto, che ha vissuto il futuro che sognava, vede la vita come una tragedia; perché ha imparato che il suo potere, per quanto grande, non prevarrà contro quelle forze del caso e della natura cui diede i nomi degli dei: e ha imparato ad essere mortale".
Ma il meglio del testo si legge quando parla del ruolo della poesia: "Il poeta contempla il caos dell'esperienza, la confusione del caso e gli insondabili regni del possibile, vale a dire il mondo in cui siamo abituati a vivere da esaminarlo solo di rado. I frutti di questa contemplazione sono la scoperta, o l'invenzione, di qualche piccolo principio d'ordine e armonia che possa astrarsi dal disordine che lo nasconde, e l'asservimento di tale scoperta alle leggi poetiche, che finalmente la rendono possibile La cura con cui il generale addestra le sue truppe, nei loro complessi schieramenti,  è la stessa con cui il poeta sceglie le sue parole, obbedendo alle necessità della metrica; l'astuzia con cui il console schiera una fazione contro l'altra, per conseguire i suoi obiettivi, è la medesima impiegata dal poeta, quando bilancia i suoi versi per esaltare la verità…."
E sulla religione: "Forse in fondo, mio caro Nicola, avevi ragione tu. Forse esiste un solo dio. Ma se è così, gli hai dato il nome sbagliato. Perché quel dio è il Caso, e l'uomo è il suo sacerdote, che non sacrifica altri che se stesso, e la sua anima divisa".

 

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