La prima volta che andai in Argentina quasi trent'anni fa, la memoria di molte cose era ancora intatta.
Cose accadute laggiù, a Buenos Aires, dove la storia si era fermata su quell'elenco interminabile di nomi cancellati dalla vita e dal lutto, Desaparecidos ammazzati senza nemmeno il diritto di portarsi la propria morte addosso.
E cose accadute quaggiù, in Italia, dove un'altra guerra e un altro nemico che non facevano prigionieri s'erano portati via assieme a tanti altri, anche mio padre.
Mi era sembrato un viaggio necessario, istruttivo: imparare che nessun luogo è il centro del mondo.
Si moriva in Argentina come in Sicilia perché una banda di carogne regolava in questo modo i propri conti con i dissidenti.
Pensarla storta, fuori dal coro, era un peccato imperdonabile.
A Buenos Aires come a Catania.
Negli anni ho imparato a raccontare quei morti con le parole dei vivi (le madri di Plaza De Mayo, le vedove di via D'Amelio) ho provato a immaginare com'erano vissuti e perché avevano fatto quello che scelsero di fare.
Non serviva a consolazione, ma a capire che dietro quelle violenze non c'era la fatalità ma pensieri malati, il cupo senso del potere, l'avidità di pochi, il loro desiderio di impunità.
In questo Videla e Santapaola si rassomigliano.
E si rassomigliano i loro morti.
La storia della squadra di rugby di Mar del Plata mi venne incontro, anni dopo, quasi per caso. In uno dei miei viaggi in Argentina lessi gli articoli di un giornalista di razza, Gustavo Veiga, che aveva ritrovato l'ultimo superstite di quella squadra.
Essere gli ultimi, sopravvivere al male, é sempre un peso insopportabile, il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un'ulcera.
Succedeva anche agli scampati dai lager, successe anche ai superstiti della mattanza argentina.
Per questo la storia di quella squadra di rugby, annientata dal capriccio e dal livore dei militari, era rimasta così a lungo ignota, conservata, al riparo.
Qual giornalista ebbe il merito di riportarla alla luce.
Fu allora che cominciai a cercare anch'io, a ricompilare senza fretta luoghi e memorie.
Fino a questo libro. Che non vuole raccontare i fatti: ho preferito immaginare i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire.
Ho provato a riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rugbisti di Mar del Plata che rinunciano a trovare rifugio in Francia pur di giocare fino in fondo il loro campionato…
Il nome di Raoul, il sopravvissuto, l'ho conservato.
Gli altri, carnefici e vittime, li ho ribattezzati: mi piaceva pensare che ognuno di loro avrebbe portato con sé , in questo libro, qualcosa in più del proprio nome, qualcosa in più della propria morte.
Perché alla fine poco importa che quei ragazzi fossero argentini o siciliani.
Importa come vissero. E come seppero dire di no. (tratto dal libro).
Un intera squadra di rugby annientata dal regime dell'Argentina di Videla. Per un puntiglio, per una questione di principio, per dimostrare che gli uomini esistono ancora. Anche se hanno solo 17 anni e non prendono posizione politica alcuna.
Questa la trama del libro di Claudio Fava e non è un caso che sia proprio lui a firmare questo romanzo che pur arrivando dall'altra parte del mondo (come Papa Francesco) ci riguarda da vicino, a ricordo della feroce mattanza della mafia e del giogo che opprime il sud Italia.
Si legge in un fiato, non fa sconti e non vuole impietosire. Bellissimo.
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